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ALDO MORO. UN OMICIDIO CENTRAL INTELLEGENCE AGENCY

20.03.2018 00:12

Cinque processi e due commissioni parlamentari. Risultato? Ufficialmente, il nulla, nonostante i numerosi riscontri probanti. Nessun colpevole, ovvero: ancora ignoti i mandanti altolocati italiani e d'oltre Atlantico. In compenso è stato propinato il solito copione di Stato, pilotato con sottofondo P2 (società eversiva finanziata e protetta dalla CIA): depistaggi, omissioni, insabbiamenti e strani decessi come per Ustica. Eppure, i fatti sono di per sé eloquenti e sotto i nostri occhi distratti.

Il Governo dell'epoca - Andreotti & Cossiga che ricevette un plauso ufficiale dall'amministrazione presidenziale del democratico Carter per la "buona riuscita dell'operazione" - era perfino a conoscenza del luogo di prigionia di Moro, riferito anzitempo dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Strage, sequestro e omicidio in appalto ai servizi segreti del Governo nord-americano infiltrati nelle brigate rosse. I morti sono sottoterra, dimenticati dai più. Gli assassini invece sono liberi ed impuniti. Mentre l'Italia è sempre sotto il padrone USA.

Sulla lapide dell'agguato di via Fani a Roma non si legge chi ha ucciso lo statista Aldo e Moro e i cinque uomini della scorta, barbaramente trucidati da professionisti militari, non certo brigatisti alle prime armi (Morucci compreso) sotto la supervisione dell'ufficiale dei servizi segreti Guglielmi, presente in loco la mattina del 16 marzo 1978 (come accertato inequivocabilmente dalla Commissione parlamentare di inchiesta). Anche se poi nel 2003, l'allora ministro Martino (aspirante piduista) in risposta all'interrogazione del deputato Walter Bielli, negò la presenza di Gugliemi, mentendo spudoratamente e senza alcuna conseguenza penale. Nulla è scritto su quella targa commemorativa della minaccia di morte rivolta dal criminale Henry Kissinger (esponente di spicco del Bilderberg Group e del Comitato mondiale dei 300) al presidente Aldo Moro.

Sul muro di quella tragica via di Roma all'incrocio con via Stresa, c'è una lapide, protetta da un vetro, che ricorda gli angeli custodi di Moro (a tre dei quali è stato inflitto il colpo di grazia da un killer della Nato). «In questo luogo cinque uomini, fedeli allo Stato e alla democrazia, sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere». Non si legge di Aldo Moro, come se quegli uomini non fossero morti per il presidente della Dc. Non si legge dei terroristi telecomandati delle Brigate rosse. Chi ha ucciso quegli uomini e perché? Non c'è scritto nulla degli insospettabili membri a Firenze della direzione strategica delle Br. E niente c'è scritto di Igor Markevitch, marito in secondo nozze di una Caetani della nobiltà nera capitolina. E neppure vi è scritto della prigionia di Moro nella stessa via Caetani, nei presso di un palazzo del Sisde (il servizio segreto civile).

Quel giorno il traffico non era intenso. Le due auto - una 130, un'Alfetta - scendevano veloci dalla collina Trionfale quando la Fiat 128 di Mario Moretti con una targa rubata del Corpo diplomatico frenò di botto all'incrocio. Fu allora che gli altri, con gli impermeabili blu, i berretti da piloti dell'Alitalia, uscirono da dietro la siepe con pistole e mitragliatori. Spararono 91 proiettili contro i cinque uomini della scorta di Moro, il maresciallo Oreste Leonardi, i brigadieri Domenico Ricci e Francesco Zizzi, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino - il solo che riuscì a replicare con due colpi. Furono sterminati in una manciata di secondi.

Ero un ragazzino e quel giorno appresi la notizia a scuola, ma il ricordo si è cristallizzato in me, ed è come se fosse ora. Non c'è chi non ricordi dov'era e con chi in quel momento, che cosa disse e fece in quel momento preciso quando seppe che cosa era accaduto a Roma. Per chi ha l'età del ricordo, non c'è chi non abbia ancora negli occhi - al punto da poterne avvertire ancora l'ansia del filmato televisivo della Rai - i parabrezza frantumati, i fori neri nell'auto bianca, il corpo di Iozzino a braccia larghe coperto da un lenzuolo bianco e la macchia di sangue sull'asfalto - densa, scura - un caricatore vuoto accanto al marciapiede nel piano sequenza di 3 minuti e 12 secondi dell'operatore del telegiornale che accompagna la voce ansimante di Paolo Frajese.

Non bisogna chiedersi per quale ragione i dilettanti allo sbaraglio delle br hanno rapito il presidente Moro e si accingevano a liberarlo avendo richiesto in cambio un riconoscimento politico, ma perché buona parte delle forze politiche, in primis la ditta Andreotti & Cossiga, compreso il corrotto Craxi (che voleva approfittare della situazione per emergere), nonché la CIA, il Mossad e i servizi segreti italiani (Sismi e Sisde), ne hanno decretato la morte.

E' sufficiente leggere attentamente il memoriale di Moro (perfino la versione apocrifa) - o comunque mettere a confronto le due versioni: quella rinvenuta a Milano in via Montenevoso nel 1978 e quella del 1990 - per comprendere la logica perversa del doppio ostaggio. Vale a dire: i segreti rivelati da Aldo Moro sul conto della NATO.
Per sciogliere il cosiddetto mistero, bastava torchiare a dovere Moretti affiliato all'Hyperion di Parigi (quello che ha materialmente assassinato il 9 maggio 1978 il presidente Aldo Moro, sparandogli a bruciapelo) e Morucci, come gli specialisti delle forze dell'ordine (polizia e carabinieri) sanno fare quando vogliono.

Ci sono tanti di quegli elementi probanti per procedere speditamente alla revisione processuale ed aprire un nuovo e decisivo processo ai responsabili nazionali ed internazionali. Cosa si aspetta? Ecco alcune evidenze: la stampatrice in possesso delle br proveniente dai servizi di sicurezza italiani (Rus), la scomparsa di alcune foto scattate da un testimone oculare in via Fani e consegnata al sostituto procuratore Luciano Infelisi, la sparizione addirittura di alcuni verbali di interrogatorio, il mancato ritrovamento nell'auto del presidente Moro di due (contenenti documenti estremamente riservati) delle cinque borse dalle quali lo statista non si separava mai, la composizione quasi totalmente piduista del comitato costituito presso il ministero dell'Interno da Cossiga con il compito di seguire la vicenda del sequestro.

Soprattutto: il ruolo del consulente personale del ministro Francesco Cossiga (il più autorevole depistatore italiota) Steve Pieczenik (laureato ad Harvard in psichiatria e al Massachussets Intitute of Technology), vice assistente del segretario di Stato, capo del servizio antiterrorismo del dipartimento di Stato degli USA. Il suo ufficio venne creato personalmente da Henry Kissinger. Secondo Sergio Flamigni (il più autorevole studioso del caso Moro) «Pieczenik diede consigli su un certo numero di strategie e tattiche molto sofisticate, che però sono rimaste segrete". Alla Commissione parlamentare d'inchiesta Cossiga ebbe a dire in proposito soltanto questo: «Il governo degli Stati Uniti ci ha garantito una qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi».

Nel settembre 1974, una settimana prima del viaggio ufficiale del presidente della Repubblica Giovanni Leone e dell'allora ministro degli esteri Aldo Moro negli USA, su consiglio di Kissinger, il presidente Gerald Ford ammise che il suo governo era intervenuto tra il 1970 ed il '73, per rovesciare Salvador Allende in Cile: «Abbiamo fatto ciò che gli Stati Uniti fanno per difendere i loro interessi all'estero» (conferenza stampa di Gerald Ford, Washington, 17 settembre 1974).

Lo stesso Kissinger tornò sopra l'argomento tre giorni dopo l'arrivo della delegazione italiana: «Ci rimproverate per il Cile. Ci rimproverereste ancora più duramente se non facessimo nulla per impedire l'arrivo dei comunisti al potere in Italia o in altri paesi dell'occidente europeo» (New York Times, 27 settembre 1974).

Lo statista ALDO MORO. il criminale Henry Kissinger

Al ritorno da quel viaggio, Moro apparve profondamente turbato: infatti comunicò al suo collaboratore Corrado Guerzoni, la volontà di ritirarsi dall'attività politica per due o tre anni, e confidò alla moglie il motivo principale della sua preoccupazione: «E' una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto. Adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole (detto in lingua inglese naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei pagherà cara. Veda lei come vuole intendere" - La frase era così. E' una cosa che a me ha fatto molta impressione. Sono rimasta a meditarci a lungo, da allora in poi» (Testimonianza di Eleonora Moro, 19 luglio 1982, in Commissione Moro, vol. LXXVII, Atti giudiziari 1a corte d'Assise di Roma interrogatori di imputati processo Moro e Moro-bis, udienza del 19 luglio 1982, Roma, Tipografia del Senato, 1993, pp. 51-52; il file dell'Archivio storico on-line del Senato risulta essere danneggiato; Commissione parlamentare di inchiesta, vol. V, pagg. 5-6).

Tra i protagonisti politici dell'epoca è stato il socialista Claudio Signorile a sostenere che, nei giorni precedenti l'uccisione di Moro, le Br stessero attuando un cambiamento di strategia, causato da pressioni di servizi segreti stranieri (Audizione dell'onorevole Claudio Signorile, 20 aprile 1999, in Commissione stragi, 13a legislatura, 51a seduta). All'inizio, per le Br, uccidere Moro non sarebbe stato necessario; a loro sarebbe bastato restituirlo in condizioni tali da costringerlo a ritirarsi dalla vita politica (una soluzione che peraltro lo stesso Moro aveva già ipotizzato prima di essere sequestrato): questo risultato avrebbe potuto soddisfare i brigatisti, simbolica contro lo Stato che combattevano, sarebbe stato utile per il mantenimento degli equilibri internazionali (e avrebbe fatto il gioco di Usa e Urss), e avrebbe grandemente avvantaggiato una parte della maggioranza democristiana e gli stessi socialisti.

Questo scenario sarebbe suffragato dalla posizione espressa su OP dal giornalista investigativo Mino Pecorelli (assassinato il 20 marzo 1979, mentre si accingeva a fare rivelazioni bomba sul caso Moro), in una fantomatica lettera al direttore (molto probabilmente prefabbricata dallo stesso per lanciare alcune ipotesi), in cui si affermava che "il ministro di polizia sapeva tutto, sapeva perfino dove era tenuto il prigioniero, dalle parti del ghetto ebraico" e si avanzava l'ipotesi che Moro sarebbe stato liberato il 9 maggio (OP, 17 ottobre 1978).

Non solo dal "carcere brigatista" ma anche in precedenza risulta che Moro apparisse alquanto preoccupato dei rapporti tra i servizi segreti stranieri e quelli italiani. Già nel 1977, come sostengono Galloni e Roberto Gaja, ambasciatore italiano a Washington, secondo Moro i servizi segreti di alcuni paesi alleati, come la Cia e il Mossad, non fornivano informazioni utili al governo italiano riguardo i loro eventuali infiltrati nelle organizzazioni delle Br, o comunque, qualora le fornissero, evidentemente esse non pervenivano alle persone giuste. molti dei membri dei servizi segreti italiani di quegli anni, come è risultato più recentemente, erano controllati dalla loggia P2 (G. Galloni, 30 anni con Moro, cit., p. 220; S. Flamigni, Le idi di marzo, cit., p. 254). Non era la prima volta che Moro incappava in complicazioni di questo genere. Non molti sanno che già in tempi lontani, alla vigilia del tentativo di "golpe bianco" di Edgardo Sogno, Moro, il 4 agosto 1974, secondo la testimonianza della figlia Maria Fida, per raggiungere la famiglia a Bellamonte, avrebbe dovuto viaggiare sul treno Italicus (che poche ore dopo sarebbe stato colpito da un sanguinoso attentato organizzato da gruppi neofascisti toscani e servizi segreti deviati), da cui tuttavia, incredibilmente, poco prima che partisse, venne fatto scendere, grazie all'intervento di alcuni collaboratori (Cfr. Maria Fida Moro, La nebulosa del caso Moro, Milano, Selene Edizioni, 2004; Giovanni Fasanella, Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Milano, Bur, 2006, p. 114; Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo, Roma, Armando Curcio, 1988, pp. 291-293).

Durante i giorni del sequestro, Raniero La Valle scrisse parole che, lette oggi, risultano profetiche: «Mia convinzione è che queste brigate [...] siano solo l'iceberg di un potente avversario che gioca su molti tavoli, non tutti clandestini, che riemerge a sinistra dopo essere stato battuto a destra, che non solo usa carte d'identità false, ma anche falsi nomi, falsi gerghi e dichiara falsi obiettivi [...]. Per difendersene, lo Stato deve difendersi anche da se stesso, da ciò che alberga dentro di sé, nelle proprie stesse strutture, dalle sue inadempienze, dalle sue deviazioni [...] Dopo Moro gli sconfitti di ieri si muoveranno per la rivincita e quanti sono riusciti a far prevalere finora un progetto politico lungimirante, si troveranno a fronteggiare delle prove assai dure. Allora non ci sarà più il crudele, irriconoscibile volto del terrorismo. I conti ce li presenteranno signori inappuntabili e incensurati [...]. E allora sì che dovremo trattare (Raniero La Valle, Moro non è soltanto una vita, "Paese sera", 24 aprile 1978).

Morte preannunciata - Che Moro dovesse fare una brutta fine era un'idea molto diffusa già negli anni precedenti ai giorni del sequestro. Nel 1976 il regista Elio Petri, nel film Todo modo, tratto dall'omonimo romanzo di Sciascia, con la sua visione surreale, grottesca e apocalittica, descriveva una riunione di notabili democristiani tenutasi in una sorta di convento-albergo, apparentemente per degli esercizi spirituali ma in realtà per una trattativa concernente la spartizione del potere, alla fine della quale il presidente - in cui erano facilmente ravvisabili moltissimi tratti di Moro - interpretato anche in quell'occasione dall'attore Gian Maria Volonté, veniva assassinato. Qualche tempo prima del sequestro, anche il regista Pier Francesco Pingitore allestì uno spettacolo al Teatro del Bagaglino in cui Moro veniva rapito proprio in via Fani. Ma, ancora più delle 'premonizioni' dei due registi, colpisce la notizia che Renzo Rossellini, direttore di Radio Città futura, la mattina del 16 marzo comunicò - circa tre quarti dopo prima - durante la consueta rassegna stampa, poco prima della strage di via Fani, la notizia che c'era appena stato un attentato all'onorevole Moro (Claudio Signorile, Anti Craxi, filo Craxi, anti Craxi e adesso ricco pensionato, intervista con Claudio Sabelli Fioretti, "Sette", 18 ottobre 2001; audizione dell'onorevole Claudio Signorile, 20 aprile 1999, cit. a nota 131; audizione del dottor Franco Piperno, 18 maggio 2000, in Commissione stragi, 13a leg., 68a seduta; audizione del dottor Lanfranco Pace, 3 maggio 2000, in Commissione stragi, 13a leg., 67a seduta).

A parte gli elementi di ambiguità, secondo Giovanni Pellegrino (dal 27 settembre 1996 al 29 maggio 2001 presidente della Commissione parlamentare di inchiesta) sono emersi alcuni ulteriori elementi, cruciali secondo lo stesso Pellegrino: «la sparizione di una documentazione fotografica, scattata dal carrozziere Gherardo Nucci, pochi minuti dopo il rapimento, sul luogo della strage; il blocco delle linee telefoniche della zona al momento del sequestro; la scoperta tardiva del covo di via Gradoli (dal quale si sapeva già che qualcuno trasmetteva in alfabeto Morse); la mancata cattura dei brigatisti la mattina dell'uccisione di Moro; l'impossibilità che fossero i brigatisti ad avere ucciso con precisione millimetrica gli uomini della scorta di Moro. In particolare quest'ultimo aspetto vale la pena di essere sottolineato: infatti, dagli atti del processo risulta che alla strage di via Fani abbia partecipato un tiratore scelto, rimasto ancora senza nome, che sparò più della metà dei circa novanta colpi di pistola esplosi. È stato infatti accertato che a nessuno dei brigatisti arrestati e di quelli indicati nei vari processi poteva essere attribuita una simile caratteristica di tiratore scelto».

A questo proposito è utile osservare che, secondo il perito balistico professor Antonio Ugolini (perizia messa agli atti nel primo processo Moro), i bossoli ritrovati in via Fani risultavano provenire da proiettili in dotazione esclusiva di forze statali non convenzionali (intervento di Luigi Cipriani, in Atti parlamentari. Camera dei deputati, Discussioni, 10a legislatura, seduta dell'11 gennaio 1991, resoconto stenografico, consultabile on-line nel sito della Camera dei deputati, Legislature precedenti, X legislatura pp. 77517-77520).

A parere del fratello di Moro, non fu effettuata per moltissimo tempo alcuna perizia giudiziaria per valutare se i risultati dell'autopsia del cadavere fossero compatibili con le testimonianze fornite dai brigatisti (A.C. Moro, Storia di un delitto, cit., pp. 62-63). In effetti, successivamente, secondo alcune perizie sul parafango esterno della Renault 4, sono stati ritrovati dei filamenti di fibre vegetali, tracce che, secondo gli esperti, sarebbero volate via qualora il percorso dell'automobile fosse stato più lungo anche di pochi metri. Nella sua prima lettera a Cossiga, Moro gli aveva fornito alcune indicazioni criptate circa il luogo dove era stato portato, perché sapeva, per il tempo impiegato nel percorso da via Fani alla "prigione del popolo", di trovarsi sicuramente nel centro di Roma e probabilmente questa sua certezza era anche confortata da qualche segno acustico (Leonardo Sciascia, L'affaire Moro, Sellerio, 1978).

Questo, alla luce delle ultime perizie, appare un dato incontrovertibile, che contrasta totalmente con le affermazioni dei brigatisti circa l'esistenza di un'unica "prigione". Inoltre, dai risultati dell'autopsia compiuta sul corpo di Moro il pomeriggio del 9 maggio, disponibili dal 2001, è emerso un altro dato che contrasta con quanto sinora è stato affermato: alle 16.30 il cadavere era ancora caldo (32,5° C), praticamente senza segni di rigor mortis. Il decesso, secondo i periti, è avvenuto, dunque, tra le 9 e le 10 del mattino, e non di primo mattino, intorno alle 6, come hanno finora sostenuto i terroristi (Il Corriere della Sera, 9 maggio 2001).

Roma, 9 maggio 1978, il ritrovamento del cadavere di ALDO MORO in via Caetani

Aldo Moro con tutta probabilità era prigioniero nell'insospettabile palazzo Caetani, nel cuore di Roma, nei pressi di un immobile del Sisde. Ecco quanto ha dichiarato Giovanni Pellegrino sul conto di Markevitch (marito di una Caetani):

«Agli atti della commissione Moro era allegato un rapporto del Sismi in cui si diceva che, secondo alcune fonti, un certo Igor Caetani - che poi abbia scoperto essere invece Igor Markevitch - poteva essere uno dei cervelli del sequestro Moro, addirittura uno di quelli che conducevano l'interrogatorio nella prigione di via Montalcini; ma la pista era stata poi abbandonata perché non portava a niente. Quell'appunto veniva da un ufficiale di grado elevato, l'attuale generale Cogliandro, il quale dichiarava attendibile la fonte dell'informazione. Il Sismi decise però che quella pista non portava da nessuna parte. Le ragioni di questa valutazione sono però rimaste misteriose. Abbiamo chiesto spiegazioni al Servizio militare, ma nessuno ci ha risposto» (Fasanella, Sestieri, Pellegrino, Segreti di Stato, Einaudi, 2000).

Esecuzione ravvicinata - Lo statista Aldo Moro non fu ucciso in via Camillo Montalcini, 8. La mattina del 9 maggio i suoi carcerieri lo fecero vestire con gli stessi abiti di marzo. Fecero sistemare Aldo Moro nel bagagliaio. Il corpo di traverso appoggiato sul fianco sinistro. Gli coprirono il volto con il lembo di una coperta di colore rosso bordò. Mario Moretti e Germano Maccari gli spararono con una Walter Ppk silenziata, che si inceppò subito, e due raffiche definitive di una Skorpion.
La Renault 4 targata N56786 compie un tragitto di pochi metri. L'auto viene parcheggiata in via Michelangelo Caetani tra i civici 8 e 9 accostata allo stretto marciapiede di porfido, il muso rivolto verso via Funari. Via Caetani è una strada breve, austera, umida, buia. Ci si passa in fretta. C'è una sola macchia di colore nel grigio della pietra. È di fronte al palazzo che ospita l'Istituto di storia moderna, la Discoteca di Stato, il Centro studi americani.

L'ombra di fronte a Palazzo Caetani è di un giallo sbiadito lungo poco più di due metri, alto tre. Al centro, la lapide ricorda: "Cinquantaquattro giorni dopo il suo barbaro rapimento, venne ritrovato in questo luogo, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo crivellato di proiettili di Aldo Moro. Il suo sacrificio freddamente voluto con disumana ferocia da chi tentava inutilmente d'impedire l'attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell'intero popolo italiano resterà quale monito e insegnamento a tutti i cittadini per un rinnovato impegno di unità nazionale nella giustizia, nella pace, nel progresso sociale".

Dicono che via Caetani sia stata una "scelta simbolica" per le Brigate rosse. Dicono che la strada è giusto nel mezzo tra il palazzo di via Botteghe Oscure, dov'era la direzione del Partito comunista, e palazzo Cenci Bolognetti che ospitava, a piazza del Gesù, la direzione della Democrazia cristiana. Dicono che quell'uomo mostrato agli occhi del Paese come un fagotto abbandonato in tutta fretta in un'auto doveva dire agli italiani quanto fosse impossibile e nefasto il patto politico del "compromesso storico". Nella costruzione di questa memoria c'è una manipolazione, uno scarto anche toponomastico. Via Caetani non è nel mezzo tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. È lontano un centinaio di metri dal palazzo rosso. È in un'altra direzione rispetto al palazzo bianco. La nuova collocazione di quella strada buia nel cuore di Roma scolpisce nella memoria collettiva una rappresentazione sapientemente alterata della morte di Aldo Moro. Liquida con una scelta perentoria ogni necessità di storia. Ne confonde le logiche. Ne occulta le responsabilità. Perché rapirlo e non ucciderlo subito, lì a via Fani, con la sua scorta? Quale influenza ebbe - non sul sequestro del presidente della Dc, ma negli ambigui 54 giorni che seguirono - quell' area occulta del potere che, negli anni settanta, era particolarmente affollata di logge massoniche, servizi segreti "deviati", affaristi, neofascisti, mafiosi, funzionari, alti prelati, prenditori e politicanti che ancora oggi spadroneggiano nel Belpaese?

Dopo trentacinque anni noi non abbiamo ancora fatto i conti col nostro passato. La verità è ancora tutta da scrivere. Nel frattempo, il miglior ricordo è ancora oggi soltanto nelle parole che, nell'ora dell'addio, Aldo Moro scrisse a Norina:

«Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

 

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